DISOBBEDITE E PASSA LA PAURA

Frédéric Gros

“La disobbedienza si basa su un’intuizione primaria: nonostante tutti i discorsi pedagogici, politici o religiosi che raccontano come i nostri impulsi originariamente anarchici ed egoistici ci rendano difficile l’apprendimento di regole comuni, allontanandoci dall’interesse

personale o dal godimento immediato, è probabilmente la disobbedienza la cosa più difficile e richiede più coraggio e tenacia, mentre la docilità è diventata rifugio e rassegnazione. Perché disobbedire significa superare alcune paure, oltrepassare o abbattere i cinque grandi muri della paura.

La prima paura è quella della punizione.

È una paura elementare, immediata. Mentre la nostra obbedienza non è altro che il risultato di un rapporto di forze, il prodotto di una violenza primaria (quella che io chiamo “sottomissione”), la trasgressione comporta un costo che il ribelle mette in conto di pagare: punizione, correzione, ecc.

La seconda paura è una paura più sottile, quella nei confronti delle figure autoritarie, di tutti coloro che dovrebbero comandarci per il nostro bene (il genitore, il capo) e che abbiamo paura di deludere. La nostra obbedienza non è altro che (in quello che definisco un rapporto di “subordinazione”) una richiesta d’amore verso il superiore, si concretizza in un eccesso di zelo che vorrebbe catturare la sua attenzione e conquistare il suo riconoscimento. E ho paura di non essere all’altezza delle sue richieste.

La terza paura è quella della solitudine che presuppone un rapporto molto più orizzontale: riproduco i comportamenti degli “altri” per “conformismo”, e soprattutto non voglio rischiare di staccarmi dalla massa, dal gruppo dove trovo sicurezza e conforto. È il calore dolce e caldo del “gregge”, così come enunciato da Nietzsche.

La quarta paura è quella del cambiamento e della novità; perché l’obbedienza alimenta l’immobilismo. Disobbedire significa sempre introdurre una rottura, una discontinuità.

L’obbedienza, al contrario, sta dalla parte del conservatorismo e della tradizione: non facciamo domande, non mettiamo in discussione nulla. Obbedire è andare aventi sempre come prima.

E poi c’è, credo, un’ultima paura, più profonda, più enigmatica, che la filosofia a volte fatica a definire: la paura della libertà. Parlo qui della libertà responsabile, libertà come capacità di decidere e di accettare le conseguenze della propria decisione, perché nell’obbedienza c’è un meccanismo segreto e quasi perverso di “deresponsabilizzazione”.

Quando obbedisco sono il protagonista della mia azione ma non ne sono l’autore. Se mi chiedono spiegazioni, la reazione è immediata: «Chiedi a chi ha dato l’ordine, io faccio sempre e solo quello che mi viene chiesto».

L’obbedienza è quell’unico dispositivo che permette a chiunque di agire senza essere il soggetto della propria azione. Il piacere della deresponsabilizzazione.

La libertà è una vertigine e un fardello insopportabile cui rinunciamo facilmente seguendo chiunque ci dice cosa fare e cosa pensare. Questa paura morale della libertà si associa spesso con la paura dovuta all’insicurezza e alla morte, in una chiave più politica: baratto, attraverso un “contratto sociale” del tipo descritto da Hobbes, la mia obbedienza con la mia sicurezza. Quando parlo di disobbedienza, non mi riferisco ovviamente né ad atti criminali, né a delitti, e nemmeno alla trasgressione estetica (antiaccademismo) o etica (anticonformismo). Parlo di quei momenti in cui, di fronte a una situazione intollerabile, a una messa in discussione violenta e inaccettabile dei principi di umanità o degli ideali di giustizia, non posso rimanere passivo. Allora mi alzo e dico di no. Mi posiziono così al centro di un’esperienza concreta e viva della mia libertà come affermazione di un soggetto che rifiuta totalmente l’infimo discorso di buona coscienza. Il gesto di disobbedienza raggiunge l’universalità anche quando “gli altri” sono di fatto maggioranza, ma non rappresentano altro che la passività animale della folla docile.”

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